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Contributo di Marino Bergagna

Domenica 18 settembre si è svolta a Trieste in piazza Unità, nei pressi della targa che ricorda il tristo annuncio di Mussolini dell’introduzione delle leggi razziali in Italia, avvenuto da quella piazza il 18 settembre del 1938, una manifestazione antifascista, antirazzista e pacifista. Hanno parlato rappresentanti del Comitato Pace e convivenza “Danilo Dolci”, principale promotore dell’iniziativa co-organizzata da ANPI, Tina Modotti e Salaam, nonché Franco Cecotti, vicepresidente dell’ANED. Ad arricchire l’iniziativa i canti del Coro popolare della Resistenza di Udine e il Coro sociale di Trieste.

Perché insistere così tanto sui temi storici e prendere a pretesto date-anniversario per iniziative di mobilitazione, come questa di cui parliamo?

È fuori dal tempo chi si ostina a voler ricordare avvenimenti accaduti così tanti anni fa?

È anacronistico parlare oggi di fascismo e razzismo?

Siamo così sicuri che si tratti di parole definitivamente consegnate alla storia passata?

Siamo sicuri che queste ideologie perverse, che hanno portato il nostro Paese al degrado morale, culturale e materiale trascinandolo in un conflitto mondiale e facendo propri gli orrori e la barbarie del regime nazista, non debbano ancora farci paura?

Certo nessuno, oggi, sarebbe così folle da proporre apertamente leggi che discriminino una parte della popolazione, né la nostra Costituzione glielo permetterebbe. Ma una cosa è certa: se è vero che il fascismo ha molte facce e si presenta in molti modi, è vero pure che la componente razzista è una sua costante, fa parte del suo DNA: si inizia cercando un capro espiatorio, una categoria di persone a cui dare la colpa se tutto va male: ieri gli ebrei o chi rivendicava, anche con l’uso della lingua madre, la propria origine slava, oggi i migranti, domani chissà.

Allora quando il sindaco di una città, non l’avventore di un bar ma, sottolineo, il sindaco parla di transennare piazza Libertà per impedire che vi stazionino i richiedenti asilo, perché il decoro di una piazza è più importante della vita di persone che hanno alle spalle un vissuto drammatico e un presente incerto, quando è il sindaco ad avere queste uscite, incurante del fatto che i centri di accoglienza siano al collasso, ebbene: ciò fa paura e, purtroppo, fa cultura. Ma non la cultura del rispetto, della solidarietà, dell’aiuto reciproco, che dovrebbe essere propugnata da un primo cittadino, bensì esattamente il contrario: si fomenta la cultura della grettezza, dell’intolleranza, dell’egoismo.

C’è una destra che parla alla pancia del paese. I migranti? Che tornino ai loro Paesi, che si facciano ammazzare nelle guerre, che spesso proprio l’Occidente ha fomentato e ha sostenuto, quanto meno con la vendita di armi; che crepino di fame, di bastonate o sopra qualche mina, purché lo facciano lontano dai nostri occhi, che chiedono il decoro. Se le cose non vanno in Italia è colpa dei migranti che ci portano via il lavoro e gonfiano il nostro debito pubblico con le loro necessità. Via gli ebrei, ci promisero nel 1938, e requisite le loro ricchezze si sarebbe stati tutti meglio. Via i migranti, ci promettono oggi, i “nostri”, gli Italiani doc, starebbero tutti meglio.

E i muratori dove li troviamo? E i lavori che nessuno vuol fare chi li farà?

No, state tranquilli, stavolta non li deportiamo veramente, facciamo finta, li spostiamo in piazza Garibaldi dove trovano qualche “caporale” che li fa lavorare. Perché i migranti ci servono, purché siano clandestini e invisibili, così li facciamo lavorare in nero, senza diritti, senza sicurezza e a basso salario. D’altra parte anche gli ebrei deportati servivano come forza lavoro gratuita, finché sopravvivevano. Eh sì, il razzismo è proprio una brutta storia, non ancora finita. E respingimenti, muri (e transenne) che si alzano e si attuano in tutta Europa non ci aiutano a superarlo definitivamente.

Marino Bergagna

membro del direttivo del Comitato per la Pace e i Diritti “Danilo Dolci”

[Foto Redazione Il Lavoratore]


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