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Il momento tanto atteso è arrivato. Accelerato dalla pandemia, come a tutti piace sottolineare per evidenziarne la fatale ineluttabilità. Lavoro e comunicazione non attendevano che il virus per digitalizzarsi. E, di conseguenza, anche la scuola che è un insieme di lavoro e comunicazione. Più qualche altra cosetta (didattica, trasmissione di cultura e sa-pere, rapporti tra lavoratori, contatti umani etc.) che sembra passare in secondo piano di fronte alle esigenze della politica economica europea che, in agguato da una trentina d’anni, può finalmente attuare il suo progetto di trasformare la scuola in un’agenzia per la distribuzione delle competenze, ovvero di “saper fare” per lavorare presto e senza opposizioni critiche al sistema.

Il contesto è ormai segnato: non solo nel mondo si consolida il telelavoro, ma la digitalizzazione e l’intelligenza artificiale hanno prodotto, in Cina, l’avatar robotico di una nota giornalista televisiva capace di condurre telegiornali da sola; e in Nuova Zelanda una robo-poliziotta che risponde in autonomia alle richieste d’aiuto dei cittadini.

Se si aggiunge che nel 2017 è stato presentato alla Camera dei deputati il primo robo-docente italiano, si capisce perché gli insegnanti che chiedono di tornare a scuola per fare lezione a esseri umani (e non a un monitor attraverso una piattaforma multimediale) passano per arrugginiti arnesi romantici e sentimentali e, come vuole la letteratura in merito, anziani, digitalmente ignoranti, pigri e misoneisti. Così si legge nei testi che preparano all’esame per dirigente scolastico. E se un docente non si sottomette alle nuove, moderna pratiche, allora è un “contrastivo”.

Questa determinazione nel criticare la classe docente e privilegiare il telelavoro (smart?) risulta più chiara se si confronta la chiusura delle scuole con la chiusura delle aziende. Molte imprese hanno risparmiato milioni di euro dall’inizio del blocco totale. È sufficiente pensare ai consumi di acqua, energia elettrica, riscaldamento, pulizie, manutenzione, carta, mense… per capire la nuova politica amministrativa: dopo la pandemia, il 95% degli impiegati del settore lavora da casa frequentando il 25% degli edifici a disposizione. L’emergenza impone cambiamenti di strutture e di programmi per adeguare gli obiettivi alla nuova situazione e renderli raggiungibili. Per ora non si parla nemmeno di ritorno sui posti di lavoro né di normale riapertura degli edifici. La situazione si potrebbe protrarre fino alla fine dell’anno. Tuttavia si procederà al reclutamento di nuovo personale e, perciò, alla fornitura di connessioni e nuovi dispositivi per favorire il lavoro da remoto. Al caso, si organizzerà un lavoro flessibile o “ibrido”, vale a dire parte in presenza e parte da casa.

Sembrano le linea guida per la didattica a distanza e la situazione delle scuole secondo il Miur. Invece è la nuova politica amministrativa per gli impiegati di Facebook, di Amazon e di Twitter che, per la verità, ha già lasciato a casa la totalità dei suoi impiegati.

Oltre al fatto che Zuckerberg ritiene che il lavoro in presenza non riprenderà prima del 2021, è facile costatare che le preoccupazione della scuola italiana, e quanto orienta la task force per la soluzione dei problemi legati all’apprendimento, sono di natura politico economica e non didattica né pedagogica. Se la scuola italiana fosse in grado di accogliere gli studenti durante lo stato di allerta pandemica, il problema non esisterebbe.

Di conseguenza, si preferisce alleggerire i programmi e instillare in genitori e docenti il dubbio di essere conservatori, immobilisti e incancreniti in vecchie e arrugginite pratiche.

In effetti, il documento pubblicato dall’Associa-zione Nazionale Presidi lo scorso 25 maggio è molto chiaro in merito. In sedici pagine, sotto l’apparenza di una serie di proposte per la riapertura delle scuole, c’è un disegno molto chiaro fin dalla nomenclatura: e-government, media-education, school improvement e middle management sono un’eco di quanto Matteo Renzi aveva avviato – proseguendo i disegni di Berlusconi – con la Buona scuola e un assaggio di quello sconvolgimento che attende il mondo dell’istruzione sotto il profilo dei contenuti, dell’organizzazione del tempo e degli spazi studenteschi, dei rapporti di lavoro, delle definizioni contrattuali e della convivenza democratica.

In sostanza, quello che si profila con la scusa dell’emergenza è la fine della scuola imperniata sui principi costituzionali e l’avvio – o piuttosto il compimento – dell’aziendalizzazione della scuola iniziando con un provvedimento semplice ma determinate: il consolidamento dei poteri emergenziali dei presidi per i quali “Si devono quindi eliminare, quanto più possibile, i vincoli burocratici e gli ostacoli organizzativi che impediscono ai dirigenti di assumere con la dovuta celerità le decisioni inerenti alla gestione delle risorse umane, economiche e logistiche”.

I “presidi sceriffo” d’epoca renziana sono un timido embrione rispetto a quanto il virus ha prodotto. Viene quasi da rimpiangerli.

Roberto Calogiuri

[Foto di R.Calogiuri]


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